Nel 1964 la Corte Suprema degli Stati Uniti sentenziò che la stampa ha il dovere di criticare i politici. Ispirandosi al Primo Emendamento della propria Costituzione (non sono ammessi limiti alla libertà di stampa quando si tratta di pubblico interesse), i giudici ribaltarono il verdetto di condanna per diffamazione inflitto ai giornalisti del New York Times, spiegando che un redattore può essere punito solo se è consapevole di pubblicare notizie false. Di fatto, il giornalista diventò il cane da guardia della democrazia. In Italia, invece, per passare da cane da guardia della democrazia a cane da guardia del potente il passo è breve: basta girare le spalle alla morale e all'etica. Alcuni direttori, cronisti, commentatori hanno deciso che stare dalla parte del padrone – che spesso coincide con la figura del loro editore – è più proficuo.
I grandi maestri del giornalismo hanno sempre sostenuto e insegnato che la regola numero uno per diventare un buon giornalista è fare domande scomode a personaggi scomodi. Nel corso degli anni, tuttavia, sembra che questa norma si sia trasformata in: "se vuoi lavorare in una redazione devi leccare il sedere a qualcuno". Chi ha applicato alla lettera questo criterio è il Tg1.
Da circa un anno – cioè da quando si è insediato il nuovo direttore (Minzolini) – guardando il Tg1 si assiste a continui black out riguardanti notizie scomode, a mezze verità e a interminabili servizi su costume e animali. Questo ha comportato un notevole calo negli ascolti (dal 32,79 per cento del 2006 al 27,5 per cento di oggi) che è costato al Tg1 lo status di "tg di riferimento per gli italiani". Ma non è tutto. Da un’inchiesta giornalistica – fortunatamente è rimasto chi ancora fa’ il proprio lavoro – sono emerse delle intercettazioni telefoniche riguardanti proprio il direttore Minzolini intento a rassicurare un politico sulla propria fedeltà. Applicando "la regola", il telegiornalista Giorgino – che adesso conduce l'edizione delle 20:00 – approntò una lettera di sostegno per il direttore, dove si dichiarava che nonostante tutto la redazione lo sosteneva. Non parteciparono alla farsa – dunque non firmarono – numerosi mezzibusti "famosi" tra cui Tiziana Ferrario, Paolo Di Giannantonio e Maria Luisa Busi. I tre entrarono in aperto contrasto con Minzolini sottolineando che durante un Tg è assurdo leggere una nota di quattro righe sui cassaintegrati che scioperano all'Asinara e poi fare tre minuti di servizio sui cigni islandesi. Questa precisazione – ma sopratutto la mancata firma di sostegno – è costata cara ai dissidenti, i quali sono stati rimossi dai propri incarichi. Alle numerose polemiche piovutegli addosso a causa di queste epurazioni, il "direttorissimo" si è giustificato asserendo motivi anagrafici (peccato che la carta d'identità sia valsa solo per chi non aveva apposto la firma).
La situazione della carta stampata, a ben vedere, è anche peggiore. Quasi tutti i quotidiani che si trovano in edicola usufruiscono dei finanziamenti dello Stato. Nel 1981 fu varata una legge che riconosceva aiuti economici ai giornali di partito incapaci di sostenersi da soli. Nel 1987 la legge cambiò: se due deputati affermavano che il giornale x è un organo di un movimento politico, anch’esso può servirsi dei finanziamenti. Nel 2001 avvenne l’ennesimo ritocco alla legge: per essere finanziati, bisognava diventare una cooperativa. Attualmente, a causa di queste leggi, si spendono 667 milioni di euro all'anno per finanziare molti giornali, nonostante la maggior parte di essi non ne ha bisogno perché guadagna abbastanza sia dalla pubblicità sia dalle vendite. Ma questa è un altra storia.
Con tutti questi milioni in ballo, quali linee editoriali adottereste se voi, cari lettori, foste i proprietari di alcuni giornali? Sicuramente non attacchereste chi vi tiene in pugno, minacciandovi a ogni occasione di levarvi i finanziamenti. Vi operereste, anzi, a nascondere, a tagliare o a far semplicemente finta che una notizia non ci sia. Quale imparzialità ci si può aspettare da questi giornali? Quale verità dovrebbero svelare? Se per assurdo s’immaginasse che le notizie non siano pilotate dalla venalità, il risultato non cambierebbe perchè la maggior parte della carta stampata è sotto controllo politico. Ad esempio Libero e Il Riformista appartengono a un senatore; Il Giornale è del fratello del Presidente del Consiglio; L'Unità, Il Manifesto, Il Secolo sono tutti giornali di "partito" – e se ne potrebbero citare tanti altri che appartengono a questa fattispecie.
Nelle maggiori democrazie liberali le regole del gioco sono chiare: la selezione delle classi dirigenti viene demandata all'opinione pubblica. L’elettore, quindi, avrebbe il diritto di sapere tutto sul proprio candidato per poi sceglierlo o bocciarlo al momento del voto. Ma in un paese come l'Italia, dove la fonte principale d'informazione è costituita dalle tv e dai giornali – cioè da quella stampa condizionata dagli interessi e dalle paure sopra citate – questo diritto viene palesemente meno. La cosa preoccupante è che il modo di fare informazione degli ultimi tempi è considerato la normalità. Non servono a nulla gli International Journalism Festival che rivendicano la libertà di stampa, se poi ai giovani presenti non si spiega il modo di fare giornalismo. Era un festival "internazionale" ma non c’erano – e nemmeno si è parlato – di personaggi come Carl Bernstein (Premio Pulitzer nel 1973 "per il Servizio Pubblico", grazie all'inchiesta giornalistica che svelò i retroscena dello scandalo Watergate, che spinse il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon a rassegnare le dimissioni) o Malcolm Browne (Premio Pulitzer nel 1964 per i reportage dal Vietnam). In compenso, però, c'erano i "professionisti" dei tg.
La verità è che i mezzi d'informazione sono diventati uffici stampa di politici-padroni e spacciatori di notizie inutili, inconsapevoli (forse) che in questo modo uccidono la libertà di parola. Dai media sentiamo ripetere sempre i soliti slogan ("libertà di stampa e di espressione") i quali, alla fine, si rivelano paurosamente simili a quelli di Orwell in 1984 ("La guerra è pace e L’ignoranza è forza").
Otterremo la vera libertà di stampa solo quando smetteremo di dare soldi alla stampa. Perché un editore o è libero da qualsiasi vincolo politico-economico o non è un editore. È semplicemente un uomo d’affari e non c’entra nulla con il principio della libertà di espressione così com’è sancito dall’art.21 della nostra Costituzione:
«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure».
Francesco Denaro
I grandi maestri del giornalismo hanno sempre sostenuto e insegnato che la regola numero uno per diventare un buon giornalista è fare domande scomode a personaggi scomodi. Nel corso degli anni, tuttavia, sembra che questa norma si sia trasformata in: "se vuoi lavorare in una redazione devi leccare il sedere a qualcuno". Chi ha applicato alla lettera questo criterio è il Tg1.
Da circa un anno – cioè da quando si è insediato il nuovo direttore (Minzolini) – guardando il Tg1 si assiste a continui black out riguardanti notizie scomode, a mezze verità e a interminabili servizi su costume e animali. Questo ha comportato un notevole calo negli ascolti (dal 32,79 per cento del 2006 al 27,5 per cento di oggi) che è costato al Tg1 lo status di "tg di riferimento per gli italiani". Ma non è tutto. Da un’inchiesta giornalistica – fortunatamente è rimasto chi ancora fa’ il proprio lavoro – sono emerse delle intercettazioni telefoniche riguardanti proprio il direttore Minzolini intento a rassicurare un politico sulla propria fedeltà. Applicando "la regola", il telegiornalista Giorgino – che adesso conduce l'edizione delle 20:00 – approntò una lettera di sostegno per il direttore, dove si dichiarava che nonostante tutto la redazione lo sosteneva. Non parteciparono alla farsa – dunque non firmarono – numerosi mezzibusti "famosi" tra cui Tiziana Ferrario, Paolo Di Giannantonio e Maria Luisa Busi. I tre entrarono in aperto contrasto con Minzolini sottolineando che durante un Tg è assurdo leggere una nota di quattro righe sui cassaintegrati che scioperano all'Asinara e poi fare tre minuti di servizio sui cigni islandesi. Questa precisazione – ma sopratutto la mancata firma di sostegno – è costata cara ai dissidenti, i quali sono stati rimossi dai propri incarichi. Alle numerose polemiche piovutegli addosso a causa di queste epurazioni, il "direttorissimo" si è giustificato asserendo motivi anagrafici (peccato che la carta d'identità sia valsa solo per chi non aveva apposto la firma).
La situazione della carta stampata, a ben vedere, è anche peggiore. Quasi tutti i quotidiani che si trovano in edicola usufruiscono dei finanziamenti dello Stato. Nel 1981 fu varata una legge che riconosceva aiuti economici ai giornali di partito incapaci di sostenersi da soli. Nel 1987 la legge cambiò: se due deputati affermavano che il giornale x è un organo di un movimento politico, anch’esso può servirsi dei finanziamenti. Nel 2001 avvenne l’ennesimo ritocco alla legge: per essere finanziati, bisognava diventare una cooperativa. Attualmente, a causa di queste leggi, si spendono 667 milioni di euro all'anno per finanziare molti giornali, nonostante la maggior parte di essi non ne ha bisogno perché guadagna abbastanza sia dalla pubblicità sia dalle vendite. Ma questa è un altra storia.
Con tutti questi milioni in ballo, quali linee editoriali adottereste se voi, cari lettori, foste i proprietari di alcuni giornali? Sicuramente non attacchereste chi vi tiene in pugno, minacciandovi a ogni occasione di levarvi i finanziamenti. Vi operereste, anzi, a nascondere, a tagliare o a far semplicemente finta che una notizia non ci sia. Quale imparzialità ci si può aspettare da questi giornali? Quale verità dovrebbero svelare? Se per assurdo s’immaginasse che le notizie non siano pilotate dalla venalità, il risultato non cambierebbe perchè la maggior parte della carta stampata è sotto controllo politico. Ad esempio Libero e Il Riformista appartengono a un senatore; Il Giornale è del fratello del Presidente del Consiglio; L'Unità, Il Manifesto, Il Secolo sono tutti giornali di "partito" – e se ne potrebbero citare tanti altri che appartengono a questa fattispecie.
Nelle maggiori democrazie liberali le regole del gioco sono chiare: la selezione delle classi dirigenti viene demandata all'opinione pubblica. L’elettore, quindi, avrebbe il diritto di sapere tutto sul proprio candidato per poi sceglierlo o bocciarlo al momento del voto. Ma in un paese come l'Italia, dove la fonte principale d'informazione è costituita dalle tv e dai giornali – cioè da quella stampa condizionata dagli interessi e dalle paure sopra citate – questo diritto viene palesemente meno. La cosa preoccupante è che il modo di fare informazione degli ultimi tempi è considerato la normalità. Non servono a nulla gli International Journalism Festival che rivendicano la libertà di stampa, se poi ai giovani presenti non si spiega il modo di fare giornalismo. Era un festival "internazionale" ma non c’erano – e nemmeno si è parlato – di personaggi come Carl Bernstein (Premio Pulitzer nel 1973 "per il Servizio Pubblico", grazie all'inchiesta giornalistica che svelò i retroscena dello scandalo Watergate, che spinse il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon a rassegnare le dimissioni) o Malcolm Browne (Premio Pulitzer nel 1964 per i reportage dal Vietnam). In compenso, però, c'erano i "professionisti" dei tg.
La verità è che i mezzi d'informazione sono diventati uffici stampa di politici-padroni e spacciatori di notizie inutili, inconsapevoli (forse) che in questo modo uccidono la libertà di parola. Dai media sentiamo ripetere sempre i soliti slogan ("libertà di stampa e di espressione") i quali, alla fine, si rivelano paurosamente simili a quelli di Orwell in 1984 ("La guerra è pace e L’ignoranza è forza").
Otterremo la vera libertà di stampa solo quando smetteremo di dare soldi alla stampa. Perché un editore o è libero da qualsiasi vincolo politico-economico o non è un editore. È semplicemente un uomo d’affari e non c’entra nulla con il principio della libertà di espressione così com’è sancito dall’art.21 della nostra Costituzione:
«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure».
Francesco Denaro